La voce del Mare, quella che ascoltava Eugenio Montale

È interessante pensare che, storicamente, sono quasi sempre degli ideali a tenere unite le persone. Più che elementi concreti, sono fedi, tradizioni culturali, passioni ad avere il potere di aggregare piccoli gruppi o addirittura interi popoli.

Questo magazine è nato essenzialmente da una passione condivisa, quella nei confronti del mare e delle navi. Si è reso connettore tra persone – noi della redazione, noi lettori – così come da sempre ha legato molti artisti, essendo un’inesauribile fonte di ispirazione per scrittori, pittori, poeti, registi.
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Senza nessuna remora possiamo affermare che il Mare ispira l’Arte e gli animi umani da tempo immemore.
Oggi peschiamo una tra tante forme artistiche e uno tra i tanti autori, per farci travolgere un po’ dal nostro amato Mare, ma seguendo una voce illustre: quella di Eugenio Montale (1896 – 1981).

Eugenio-Montale

Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, affonda le sue radici nella città di Genova; trascorre infanzia e giovinezza tra la città natale e lo splendido paese di Monterosso, nelle Cinque Terre.
È già chiaro il motivo per cui il Mare ricopre un ruolo fondamentale nella sua poetica: ne ha sentita la voce fin da bambino, ha trovato in lui metafore di inquietudini, ma anche lezioni di vita dal valore inestimabile.
Sarebbe inutile cercare nei suoi scritti avvenuture di mare alla Hemingway, la sua interpretazione racconta di un rapporto contemporaneamente intimo e distaccato, osservativo.

La terza sezione della raccolta Ossi di Seppia, si intitola “Mediterraneo” e contiene nove poesie fuse in un unico poemetto; i temi ruotano attorno al mare e alla condizione esistenziale del poeta e, proprio a testimonianza di questo rapporto, vogliamo farvi leggere Antico, sono ubriacato dalla voce, composto nel 1924.

Antico, sono ubriacato dalla voce
ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi cosí d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

il mare di Monterosso
il mare di Monterosso

Trascuriamo la parafrasi del poema, ma soffermiamoci su un paio di immagini di sostanziale bellezza.
La prima s’incontra subito, si tratta della famosa voce del mare di cui Montale si nutre al punto di esserne inebriato; è un canto perenne, assomiglia ai rintocchi di campane, costanti e ripetitivi, a cui si aggiunge l’immagine dell’onda che “rotola” contro la costa per poi sciogliersi. È chiaramente la prospettiva di chi guarda il mare da una riva, in una posizione di rispettosa contemplazione.
Il secondo punto di attenzione si trova all’undicesimo verso, il “solenne ammonimento del tuo respiro”.
Che cosa aveva suggerito il Mare al poeta, che ancora oggi resta impietrito al suo cospetto?
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Era stato il primo a dirgli che i moti del suo cuore non erano che un frammento di un’enorme vastità e varietà dell’animo. In parole più semplici, significa che l’uomo è somma di mille sfacettature, ma ha in sé una sua propria integrità, proprio come il mare è composto da tante onde (impetuose, calme, agitate…) ma è pur sempre e solo Mare.
Legge non facile, come a dire: attingi alla pienezza della vita senza tradire te stesso e liberati da ogni pezzo inutile e negativo (e svuotarmi cosí d’ogni lordura).
Montale non si sente più degno di questo ammonimento, sente forse di non aver preservato la sua integrità.
Ma noi gli siamo molto grati di aver portato alla luce questa straordinaria riflessione.